martedì 6 gennaio 2009

L’AMERICA LATINA ASPETTA OBAMA

Tra pochi giorni, Barak Obama, svestirà i panni del fenomeno politico-mediatico per indossare quelli - certo meno confortevoli e assai più impegnativi - di Presidente degli Stati Uniti d’America. Si è già scritto e detto in ogni salsa di quello che il primo presidente afroamericano simboleggia nel contesto di una superpotenza mai così in crisi d’identità, ruolo e prospettive, insomma di leadership globale. Si dirà e si scriverà di cosa farà nei primi cento giorni del suo mandato, come se la crisi sistemica che investe gli Stati Uniti fosse risolvibile in tre mesi di presidenza più o meno illuminata. Ma se i primi passi saranno dedicati a smantellare le linee di politica interna ed estera di Bush, un aspetto non secondario di questo percorso riguarderà proprio il rapporto tra Stati Uniti e America Latina. Nel suo programma elettorale, il neo presidente Usa aveva dedicato solo tredici pagine ai rapporti con il resto del continente, senza cheperaltro vi fossero però contenute particolari, significative affermazioni tali da giustificare ipotesi di lavoro immediate. Anzi, a ben guardare, solo nel capitoletto dedicato all’America Latina non si inneggiava al “change”, non si lanciavano slogan che potessero svegliare attese e speranze nei popoli latinoamericani per il nuovo inquilino della Casa Bianca.

Obama trova un’America latina molto diversa da quella che trovò Bush al suo ingresso alla Casa Bianca otto anni fa. Nelle sue diverse articolazioni, identità e sensibilità, la sinistra governa a Cuba, Nicaragua, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Argentina, Brasile, Cile, Uruguay e Paraguay. E’ un’America Latina che ha scelto l’affrancamento progressivo dal Washington consensus che ha comportato non solo una politica indipendentista dal gendarme globale, ma anche una politica d’integrazione economica regionale che si è dotata di strumenti e sedi autonome ed assolutamente indipendenti dai rapporti commerciali e finanziari con gli Usa.

Definitivamente seppellito l’Alca (l’Accordo di libero scambio delle Americhe che altro non era se non il controllo delle economie regionali da Washington) è invece venuto alla luce l’Alba, ispirato dal venezuela chavista e al quale hanno aderito Cuba, Nicaragua, Honduras e Bolivia) che attua un regime di scambi sulla base dei reciproci fabbisogni dei paesi aderenti. Addirittura, come in una piramide rovesciata, non c’è più nessuna dipendenza del continente dal gigante del nord, che invece è costretto ad importare oltre il 40% del suo fabbisogno energetico proprio dalla nuova America Latina.

Una nuova America latina che ha dimostrato anche una sana indifferenza alle logiche politiche statunitensi ed alle sensibilità dei suoi circoli più reazionari, disegnando strategie economiche, politiche, diplomatiche e commerciali in assoluta libertà. Esempi ce ne sono diversi: Hu-Jintao in Costa Rica, Perù e Cuba; Medvedev a Cuba, Venezuela, Brasile e Perù; Amorin, ministro degli Esteri brasiliano, a Teheran con Ahmadinejad, al quale ha portato un invito di Lula a recarsi in visita in Brasile. L’anno scorso, lo stesso presidente iraniano si era recato a Caracas, Managua, La Paz e Quito. Morales, che ha espulso l’ambasciatore Usa dalla Bolivia, ha riaperto l’ambasciata boliviana a Teheran.

Altri esempi? Il Venezuela ha inaugurato il centro di cooperazione tecnico-scientifica bielorusso-venezuelano a Minsk, che ha come obiettivo stringere i vincoli accademici tra i due paesi. Ortega riconosce l’Ossezia del nord e intensifica le relazioni con la Russia di Medvedev e Putin. La Cina investe mille miliardi di dollari e compra materie prime, la Russia si riaffaccia nel continente per vendere armi e coinvolgere Venezuela nella Gas exporting countries Forum (Gecf). Questo lo scenario di un subcontinente che, spregiudicatamente, persegue i suoi obiettivi economici e commerciali e rilancia il suo ruolo politico con un protagonismo inedito.

Obama troverà quindi una regione latinoamericana disposta a negoziare accordi economici, purché si rispettino una serie di condizioni politiche ignorate da Bush e, prima ancora, dimenticate da Clinton. In primo luogo la fine del blocco contro Cuba, il rispetto delle istituzioni democratiche (in Nicaragua, Bolivia, Venezuela ed Ecuador in primo luogo) e la fine delle politiche militariste (Plan Colombia, Plan Mérida) con conseguente ritiro della IV Flotta statunitense dai Caraibi. Il nuovo blocco latinoamericano non ha l’antica vocazione alla servitù: negozia da pari a pari, riconosce quello che gli si riconosce, ha imparato a memoria la reciprocità, fiore all’occhiello della sovranità.

Ma, proprio perché nel nuovo scenario democratico latinoamericano l’unità dei paesi ha un ruolo fondamentale, tanto nelle politiche d’integrazione come nel suo nuovo ruolo politico, il banco di prova della nuova amministrazione sarà, senza ombra di dubbio, il suo rapporto con Cuba. E’ un tema che investe persino l’ordine simbolico della nuova realtà continentale. L’isola socialista, che ha da poco festeggiato il suo mezzo secolo d’indipendenza e sovranità, rappresenta un test decisivo per verificare l’abbandono definitivo delle fallimentari politiche di Washington verso l’Avana.

C’è da ricordare che durante la campagna presidenziale, Obama disse, nella sede della Fondazione Nazionale Cubano Americana di Miami, che “è arrivata l’ora di ascoltarsi reciprocamente e di apprendere dalle esperienze di entrambi”. S’impegnò a permettere i viaggi e l’invio di denaro a Cuba senza restrizioni Di per se stesse, queste affermazioni sono generiche e non offrono un’impegno concreto nella direzione giusta, ma questo rientra nel politichese nel quale ogni tanto Obama inciampa. Del resto, nel 2004 Obama disse che andava tolto il blocco a Cuba, mentre nel maggio 2008 disse che l’avrebbe mantenuto. E’ possibile che la direzione di marcia sia progressiva e che la rimozione del blocco preveda un allentamento graduale, ma il percorso non potrà comunque vedere ambiguità.

Ma la speranza è che la prudenza sia stata una necessità elettorale. La fine del blocco Usa contro Cuba, oltre che dall’Assemblea Generale dell’ONU, che negli ultimi anni ha umiliato Washington con un voto schiacciante, è stata richiamata come impegno prioritario da tutta l’America Latina, che nella recente conferenza del CARICOM, oltre a riammettere proprio Cuba come paese membro, ha chiesto l’immediata fine del blocco contro l’isola, proprio a dimostrazione di una possibile, nuova relazione politica tra il nord e il centro-sud del continente americano. In questo senso il neopresidente statunitense non può far finta di non capire, dal momento che l’Onu ha un’importanza molto maggiore per Obama di quanto non l’avesse per Bush e che, se vuole cominciare con il piede giusto il cammino di riavvicinamento con il blocco democratico latinoamericano, la rimozione del blocco è un passo importante nella direzione giusta.

FONTE: ALTRENOTIZIE

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